XXI inv. - 2002 Salt Lake City (USA)

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2002 Salt Lake City (USA)


Città ospitante Salt Lake City, Stati Uniti d'America
Nazioni partecipanti 77
Atleti partecipanti 2.399 (1.513 Uomini - 886 Donne)
Competizioni 78 in 7 sport
Cerimonia apertura 8 febbraio 2002
Cerimonia chiusura 24 febbraio 2002
Aperti da George W. Bush
Giuramento atleti Jim Shea
Giuramento giudici Allen Church
Ultimo tedoforo la squadra del "Miracolo sul ghiaccio"
Stadio Rice-Eccles Stadium

I XXI Giochi olimpici invernali (in lingua inglese XXI Olympic Winter Games) si svolsero a Salt Lake City (Stati Uniti d'America) dall'8 al 24 febbraio 2002. Le 'Olimpiadi della paura', come furono denominati alla vigilia i Giochi tenuti a Salt Lake City nello Utah (USA), furono inaugurate l'8 febbraio 2002, con una cerimonia abbastanza sottotono, durante la quale otto atleti statunitensi portarono la bandiera nazionale recuperata fra le rovine delle Torri Gemelle. La manifestazione, secondo taluni troppo vicina all'11 settembre 2001, fu blindatissima e fu percorsa da brividi extrasportivi di commozione ed emozione. Il presidente Bush aprì i Giochi sotto la sorveglianza di agenti di polizia, soldati della guardia nazionale, cecchini e uomini dell'FBI e della CIA. La città, nonostante il dispiegamento di forze di sicurezza, apparve comunque meno triste del previsto. Si pensò che il lutto nazionale eccezionale unito all'austerità dei mormoni, in maggioranza nella zona e molto rigidi nell'imporre limitazioni a tutto ciò che era divertimento e pesanti divieti concernenti specialmente le pratiche del fumo, dell'alcol e del sesso, portassero a una edizione addirittura tetra dei Giochi: invece riuscì a circolare persino una certa allegria di popolo, e tutto sommato la comunità olimpica dimostrò di saper reagire a qualsiasi tipo di tragedia.
Per l'Italia quell'edizione ebbe un valore 'didattico' in vista dei Giochi del 2006, assegnati dal CIO a Torino, 50 anni dopo l'edizione invernale di Cortina e 46 anni dopo quella estiva di Roma. Salt Lake City, città pressappoco grande come Torino, dovette denunciare eventuali problemi organizzativi e soprattutto suggerirne le soluzioni. Ci fu anche un legame esplicito ufficiale fra Salt Lake City e Torino quando il presidente del Comitato organizzatore locale, il potente vescovo mormone Mitt Romney, citò alcuni giovani del mondo che sognavano di disputare i Giochi Olimpici prossimi venturi e scelse per l'Italia Michela Basso, sciatrice quattordicenne di Cuneo.
Tra i grandi protagonisti dell'edizione precedente dei GO invernali, mancò Hermann Maier: lo sciatore austriaco era rimasto vittima di un gravissimo incidente in moto l'anno precedente e la sua carriera sembrava ormai volta al termine.
Invece contro ogni pronostico seppe rialzarsi e tornare, ma qui intanto fu il suo connazionale e rivale Stephan Eberharter, eternamente battuto da Maier, a presentarsi da numero 1. In discesa però fu l'altro austriaco Fritz Strobl, che si adattò meglio alle non troppo dure nevi americane, a prendersi l'oro in supergigante.
Il norvegese Aamodt si aggiudicò invece la combinata nordica, mentre Eberharter dovette attendere l'ultima gara, il gigante, dove finalmente riuscì a scrollare via l'etichetta di eterno secondo e vincere l'oro. In slalom ci fu una sorprendente doppietta francese: su una pista strana, con un fondo rovinato e tante insidie, molti dei favoriti finirono fuori e la vittoria andò a Vidal sul veterano Amiez.
Riguardo invece al fondo, ritiratosi il leggendario Bjørn Daehlie, Johann “Juanito” Mühlegg, tedesco naturalizzato spagnolo arrivò primo nella nuovissima 20 km (10 km a tecnica libera + 10 km a classica), nella 30 km skating e nella 50 km classica. Ma fu fumo negli occhi. La WADA, l’agenzia antidoping mondiale criticata dagli atleti per i suoi metodi invasivi e per i controlli a sorpresa, diventò protagonista delle gare olimpiche a Salt Lake City, smascherando dapprima Mühlegg, positivo alla darbopoietina, poi dimezzando la squadra russa femminile, pescando con valori di emoglobina anomali Larissa Lazutina (vincitrice della 30 km e argento sia nella 10 km che nella 15 km) e Olga Danilova (oro nel 5+5 km e seconda nella 10 km a tecnica classica). Non sarà tolta invece alcuna medaglia alla Russia nella staffetta 4x5 km, semplicemente perché alla formazione venne impedito di partecipare, in quanto la notizia dei valori anomali della Lazutina affiorarono proprio durante un controllo a sorpresa effettuato pochi minuti prima dell’inizio della prova. Altre fondiste fermate furono anche l’ucraina Valentina Shevchenko e l’altra russa Natalia Baranova, ma si ebbe la sensazione che tutti gli atleti pescati fossero stati “i pochi” a pagare per “i molti”, visto anche un caso analogo scoppiato ai mondiali di Lahti l’anno prima che aveva visto sei fondisti finlandesi positivi al doping, e considerati i tanti valori di poco sotto il tetto massimo, emersi da altri controlli.
Accadde così che le classifiche dello sci di fondo vennero completamente stravolte e, senza veri dominatori, molti atleti conseguirono il risultato più prestigioso. Andrus Veerpalu fu il primo estone a raggiungere un oro olimpico, Christian Hoffmann il primo austriaco, Frode Estil e Tore-Arne Hetland, nella nuovissima prova a sprint, gli ennesimi ori norvegesi. Il russo Mikhail Ivanov si aggiudicò la maratona dei ghiacci (la 50 km), mentre per la terza edizione consecutiva la prova di staffetta terminò con un finale serrato tra Norvegia e Italia. Vinse ancora la formazione scandinava grazie a Thomas Alsgaard che, come con Fauner quattro anni prima, regalò al fotofinish Christian Zorzi, il bronzo della prova a sprint.
Per l'Italia questi Giochi invernali furono i meno ricchi di quelli facili e splendidi insieme di Lillehammer 1994, ma migliori sotto ogni punto di vista di quelli di Nagano 1998. La prestazione della squadra azzurra fu più che dignitosa, con 13 medaglie e alcuni di quei 'miracoli' che inorgoglirono il pubblico nazionale, il cui interesse per certe discipline si risvegliò in realtà solo nell'occasione olimpica. Una bella medaglia, di bronzo, fu conquistata da Cristian Zorzi nella prova di sprint. Zorzi fu battuto dal norvegese Tor Arne Hetland e nell'ultima parte della gara anche dal tedesco Peter Schlikenrieder. Zorzi, detto 'Zorro', gareggiò con una Z tricolore dipinta sulla parte rasata del cranio, per il resto coperto da capelli d'oro luccicante. Trentino di non poche parole, promise la vittoria a tutti.
Stefania Belmondo per l'Italia non fu la sola a portare oro al medagliere azzurro: Armin Zoeggeler vinse nello slittino sull'austriaco Georg Hackl e il tedesco Markus Prock, dopo quattro manche di perfetto dosaggio del rischio, che gli fecero accumulare alla fine un vantaggio di 329 millesimi sul secondo e 342 sul terzo. Nello skeleton, disciplina reintrodotta in questa edizione, il personaggio di rilievo fu Jim Shea, vincitore dell'oro: suo nonno aveva vinto i 500 e i 1500 m di pattinaggio a Lake Placid 1932, suo padre era stato fondista (mediocre) a Innsbruck 1964, Jim arrivò allo skeleton dopo hockey e bob, vendendosi tutto per pagarsi trasferte e materiale.
In calce al racconto dei giochi più corrotti del secolo, vennero però scritte a Salt Lake City due storie che rifletterono totalmente quelli che furono i valori e lo spirito delle olimpiadi. Dallo skeleton, nella cui gara femminile trionfò l’americana Trista Gale, arrivò la bella favola di Jim Shea, terzo di una dinastia di atleti olimpionici cominciata con nonno Jack, oro a Lake Placid 1932 nel pattinaggio di velocità, e continuata con il padre Jim Shea Sr. che partecipò alle prove di combinata nordica ad Innsbruck 1964. Lui, Jim Shea Jr. dal Connecticut, non voleva essere da meno. Dopo aver provato l’hockey e il lacrosse, scoprì che la vecchia disciplina dei “matti a testa in giù” sarebbe rientrata nel programma olimpico e decise che quello sarebbe potuto diventare il suo sport. Lasciò il lavoro da cameriere, vendette la Jeep e provò a cimentarsi sul groviglio di ghiaccio. Potè partecipare alle prime gare grazie a una slitta regalatagli da un’atleta inglese. Discesa dopo discesa riuscì ad affinare la sua tecnica, migliorando a vista d’occhio. “Devi solo stare immobile e vincere la paura” gli avevano detto. Il giovane Jim seguì il consiglio diventando il miglior debuttante dell’anno nel 1995 e vincendo la sua prima gara di coppa nel 1998. Così il 20 febbraio 2002, prima di partire per la sua discesa più importante, Jim Shea Jr. si sistemò nel casco una foto sbiadita del nonno e la cartolina che annunciava la sua morte, avvenuta tragicamente a pochi giorni dall’inizio dei giochi, quando a 91 anni venne investito da un automobilista ubriaco. Al termine delle due discese “Shea III” si tolse la foto dal casco e la sventolò al cielo: fu primo. Oro come il suo avo settant’anni prima. “Mi ha spinto lo spirito di nonno Jack. Sono uno Shea, sono un olimpionico”. Dirà tra le lacrime e con la medaglia in mano.
Il CIO in questa edizione invernale delle Olimpiadi si ritrovò con i Giochi cosiddetti 'sporcati' e promosse un altro giro di vite dell'antidoping. La scena internazionale fu quasi tutta dominata dalle proteste della Russia. I dirigenti della delegazione parlarono di persecuzione nei loro confronti, sia per le decisioni prese nel pattinaggio artistico sia per i troppo mirati prelievi del controllo antidoping, affermando che gli atleti sarebbero stati innervositi quando anche non dissanguati prima delle competizioni. Il medagliere vide l'Italia (4 ori, 4 argenti, 5 bronzi) dietro a Norvegia, Germania, Stati Uniti, Canada, Russia e anche Francia (4 ori, 5 argenti, 2 bronzi). Il mondo dello sport invernale, dopo aver faticato per essere pienamente accettato nel consesso olimpico, in fretta aveva assunto ed esasperato problemi e difetti dello sport estivo: denaro, doping, show business, sottomissione alla televisione, proliferazione delle gare, elefantiasi dell'evento, misure di sicurezza eccessive. Intanto la bandiera olimpica di Salt Lake City fu consegnata al sindaco di Torino, sede dei Giochi 2006.

Vedere anche


Fonti