1936 - Silvano Abba, atleta e capitano: da Berlino a Isbuschenskji

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Silvano Abba, atleta e capitano: da Berlino a Isbuschenskji


La vita di Silvano Abba riporta alla memoria una figura centrale della mitologia greca: l’eroe per antonomasia, Achille, cui gli Dei, quand’egli era ancor giovanotto, chiesero se avesse preferito vivere a lungo ma senza gloria e sconosciuto a tutti, o avere una vita breve ma famosa per le imprese che avrebbe compiuto. Il giovane optò per questo secondo modello di vita. Quando scoppiò la guerra di Troia Teti, la madre di Achille, cercò di trattenere il figliolo in patria con uno stratagemma, ma invano perchè Ulisse lo svelò. Allora ella volle ripetere la domanda fatta dagli Dei, avvertendo il figlio del destino che lo attendeva: se fosse partito per Troia avrebbe avuto una fama radiosa, ma una vita breve, mentre se fosse rimasto sarebbe vissuto a lungo, ma la sua vita sarebbe trascorsa senza gloria. Achille ignorò il desiderio della madre, e confermando la decisione di anni prima scelse la vita breve e gloriosa.

Vita breve e gloriosa pure quella del capitano Abba, cui la madre signora Maria Millach, a differenza della madre di Achille, non ritenne però necessario porre la fatidica domanda "vuoi una vita così e così… o preferisci una vita così e cosà", perché lei decise per lui, scegliendo per lui la vita del militare, quindi una vita breve, qualche probabilità di gloria e medaglie, molte di un posto tra gli angeli senza lunghi tempi di attesa. Ma la signora Millach che era brava madre di famiglia agiva in effetti nella maniera più accorta, vita dura e difficile in quegli anni, la modesta maestrina che aveva perso il marito nella grande guerra giocava per il figlio l’unica carta in suo possesso, la carriera militare, puntava cioè sulla sola operazione che all’epoca, se tutto fosse andato per il verso giusto, avrebbe potuto garantire un reddito decoroso alla famiglia. Tutto andrà in effetti per il verso giusto, e ne verrà fuori un esemplare magnifico di ufficiale di cavalleria, con grandi qualità, notevole ascendente sui soldati e gli ufficiali subalterni, devoto all’uniforme, una non comune forza di volontà e uno scintillante e ingenuo sorriso sempre stampato sul volto. L’orgoglio della madre vedova era salvo. Prima comunque per il figlio occorreva un diploma, meglio se di Ragioneria le dicevano tutti, e tutti lo dicevano nell’Italia intera in quel difficile primo novecento, un bel diploma di Ragioniere può sempre servire; ragionieri però si nasce, non si diventa, e allora il giovane e volenteroso Silvano per strategia famigliare infilato all’Istituto Tecnico di Rovigno, riuscirà a mettersi in luce, più che per il calcolo e la partita doppia, per la condotta, la diligenza e le qualità sportive. Conseguirà il diploma all’età di 19 anni, e a quel punto la saggia madre, senza perder altro tempo alla ricerca di un posticino da contabile da qualche parte, tenterà subito la realizzazione del sogno suo: Silvano figlio mio caro, in divisa.

La storia della breve esistenza di Silvano Abba, per l’anagrafe di Rovigno d’Istria Sylvanus Yoseph Abbà con la “a” finale accentata, come per molti del suo tempo è quindi principalmente una storia da uomo in divisa.
Aveva solo vent’anni quando varcò i cancelli della Regia Accademia di Modena, al secondo anno di corso era già istruttore, poi infilò al collo una medaglia dopo l’altra, condotta scolastica, disciplina e capacità ginniche i suoi cavalli di battaglia. Finita l’Accademia e nominato sottotenente di cavalleria entrò alla Scuola di applicazione di Pinerolo, scuola celebre già dal tempo della belle époque, che evoca nomi illustri della didattica, Otto Wagner, Cesare Paderni, Thaon de Revel, i maestri del novecento, e su tutti Federico Caprilli, il grande cavaliere che faceva scuola ai cavalieri di mezz’Europa, che faceva saltare gli ostacoli al cavallo in un modo nuovo un modo diverso, lo montava a redini corte busto in avanti, e il cavallo libero galoppava felice tra steccati gabbie e riviera. Scuola per arditi ed impavidi, che si sviluppava attraverso prove temerarie, come il famoso “scivolo di Baldissero” o il salto dalla finestra del Castello del Mombrone, un salto nell’ignoto senza se e senza ma, che decretava il voto finale nella pagella dell’allievo. Terminata l’esperienza pinerolese, Abba completò la propria formazione militar-equestre alla scuola di cavalleria di Tor di Quinto e al Reggimento Lancieri “Vittorio Emanuele II” di Bologna. E’ ancora e sempre storia da uomo in divisa, quella di Abba, che troviamo in Spagna dal maggio del ’37 con la II^ compagnia carri d’assalto ad appuntarsi al petto altre medaglie, e nella primavera del ’41 in Jugoslavia quando si aprirono le ostilità nei Balcani.

Sono momenti e passi impegnativi della sua vita, gli studi, l’Accademia di Modena, Pinerolo, Tor di Quinto, ma la vita davvero “importante”, la vita “esclusiva” del capitano Abba, quella che lo farà ricordare ai posteri è tutta racchiusa e concentrata in due eventi, ma due eventi di estensione mondiale, e che rappresentano le antitesi, due estremi opposti nella complessa e travagliata vicenda dell’uomo del novecento: le Olimpiadi e la Guerra, la festa e il lutto dei popoli, l’allegria generale e la mestizia degli abitanti del mondo.
Le Olimpiadi e la Guerra, più in dettaglio i Giochi Olimpici di Berlino del ‘36 e la drammatica battaglia di Isbuschenskij nella seconda guerra mondiale: Abba fu protagonista eccelso del primo e del secondo evento. Ma nel primo caso tornò in patria per ricevere i baci le congratulazioni gli onori dei parenti degli amici delle autorità e del Duce, nel secondo i baci e gli onori li ricevette dai suoi già compagni d’arme, subalterni parigrado e superiori in triste raccoglimento a battaglia ultimata, il Duce se la fece alla larga, i parenti e gli amici rimasti lo saluteranno solo cinquantasette anni dopo, quando le sue spoglie, assieme ad altre, torneranno dalla lontana Ucraina alla sua terra.

La partecipazione di Abba ai Giochi Olimpici del ’36 si compì grazie all’esistenza di una disciplina sportiva particolare, il pentathlon moderno, così appellato per distinguerlo da quello dei Giochi Olimpici dell’antichità, che era tutt’altra cosa.
Il legame tra Abba e lo sport delle cinque prove si perfezionò ai Littoriali dell’anno XIII°, cioè nel 1935, che l’allora tenente del Guf Roma vinse in maniera netta. L’apparire sulla scena di Abba rincuorò l’ambiente del pentathlon ed il capitano Pasta, cui era affidata la preparazione per le Olimpiadi del ‘36. E dopo un ultimo ripasso di equitazione e scherma al collegiale di Pinerolo, la squadra italiana composta da Abba Orgera e Ceccarelli raggiunse la capitale del Reich.
2 agosto 1936: prima prova l’equitazione, cinque chilometri di galoppata in campagna con ostacoli. Abba, lo sapevano tutti, era un gran cavaliere ma quel giorno affrontava altri quarantaquattro campioni, tra cui Sven Thofelt lo svedese che aveva vinto ad Amsterdam nel ‘28, e i tre tedeschi, che a casa loro e sui cavalli erano pressochè imbattibili (e lo dimostreranno nei giorni seguenti in tutte le prove equestri)… Ma Abba quel giorno fu perfetto, e la notizia della sua cavalcata trionfale tra boschi e gerarchi nazisti fece in serata il giro di tutta Berlino, pubblicata su tutti i giornali e la colonia italiana gioì e gonfiò il petto d’orgoglio nazionale. Poi Abba si difese come potè, prima di spada e poi di pistola cercò di frenare gli assalitori, ancora nuotò frenetico ma fiducioso e nell’ultima prova, da abile corridore campestre volò sui prati lungo le rive del Wansee, scavalcando Thofelt e l’ungherese Orban, e agguantò la medaglia di bronzo preceduto soltanto dal tedesco Handrick e dall’americano Leonard.

Se la medaglia di Abba a Berlino sarà ricordata come prima e fino al 1984 unica medaglia olimpica di un pentathleta italiano, la medaglia d’oro al valor militare conseguita nella celebre carica di Isbuschenskij sarà ricordata perché conseguita in occasione dell’ultima carica nella storia della cavalleria italiana, con cui si chiuse per sempre l’epoca dei combattimenti a cavallo, eseguita da un reggimento tutto particolare, il celebre e glorioso “Savoia Cavalleria”, un reggimento che traboccava di uomini di sport, cavalieri di grande stile e di grandi risultati.
Cavalieri che Luigi Gianoli, eccelso giornalista e scrittore, anch’egli ufficiale in quel reggimento, nel suo racconto “Savoye Bonnes Nouvelles” definisce “uomini meravigliosi, schietti, capaci di affrontare con la massima indifferenza imprese straordinarie, ardue, rischiose, e risolte al ritmo del galoppo come un difficile percorso in campo ostacoli” e che fanno apparire la guerra come “un’elegante anche se sudatissima partita cavalleresca” (1).
Tra questi Pino Cacciandra, che in famiglia aveva cavalieri e amazzoni come il fratello Giulio e la moglie Alma Bordoni, ed il milanese purosangue Alberto Litta Modignani, “maestro di equitazione inimitabile poiché andava oltre la lettera dell’esercizio sportivo e il cavallo diventava in mano sua uno strumento docile e perfetto” (2), specialista nello steeple-chase e nel cross e per diversi anni istruttore alla scuola di cavalleria di Pinerolo, che non farà parte di spedizioni olimpiche per propria scelta, in quanto che “gli importava poco di vincere, gli bastava insegnare qualcosa al suo cavallo promovendo con esso un colloquio sostenuto dal rispetto e dall’amore proprio francescano per ogni creatura” (3).
E ancora Conforti, De Leone, Manusardi Gotta Mela Curcio Vannetti e tanti altri, tutti agli ordini del colonnello Sandro Bettoni, uno dei più forti esponenti dell’equitazione italiana del novecento, che riempirà di cavalli e concorsi ippici oltre venticinque anni della propria esistenza. Uno che nella campagna di Russia, dall’alba a notte inoltrata, tra un caffè e l’altro, tra una sigaretta e l’altra, teneva inchiodati i subalterni col racconto delle sue nobili vicende equestri, uno che sapeva a memoria la storia del suo Reggimento dal giorno lontano in cui, nel 1692 Gian Michele di Piossasco, conte di None, lo aveva formato per incarico di Vittorio Amedeo II duca di Savoia, e via via negli anni fino al 1937, quando il conte generale Raffaele Cadorna lo aveva ereditato e rimesso in sesto con una severa cura a base di “disciplina” e di due compresse al giorno di antifascismo somministrate nella caserma di Via Vincenzo Monti. Bettoni, uno che riuscirà a chiudere la propria scoppiettante esistenza sul modello del leggendario Phidippides, giusto al termine di una galoppata a ostacoli nella mitica Piazza di Siena.

Quei cavalieri partirono da Lonigo, provincia di Vicenza, nella seconda decade di luglio del ’41, poco dopo l’attacco tedesco all’Unione Sovietica. Il loro trasferimento verso l’area del conflitto fu complicato assai: centinaia di chilometri percorsi, parte in treno, parte a cavallo, o anche a piedi per far riposare gli animali. Attraversarono la campagna austriaca, videro il Danubio, valicarono i Carpazi, oltrepassarono la Bucovina la Romania la Bessarabia, sempre in marcia, a cavallo o appiedati, superando ogni sorta di disagi, “ma più d’ogni cosa” ricorderà il caporalmaggiore Aristide Bottini “il senso di oppressione che ci davano queste sconfinate distese della Russia”. “Più del caldo, della paura, ci pesava il silenzio di questa sterminata pianura che si sperdeva a vista d’occhio senza un punto di riferimento, senza una ondulazione, senza un albero: grano, segale, erba e girasoli”. (4)
Dopo altre marce finalmente apparve l’Ucraina, e con l’Ucraina quel senso di oppressione e di solitudine cedette il posto alla voglia di relazione e di conoscenza con gli abitatori di quella terra… i ragazzetti che osservavano con curiosità i cavalieri, e gli anziani, i muziki, i contadini del luogo, che ricordavano le cose tristi di vent’anni prima, quando lì, da quella terra, dalla loro terra, come gli Unni di Attila erano passati i cosacchi del maresciallo Budienny, sciabolando e urlando ‘compagni vi portiamo la rivoluzione’, ma per la rivoluzione c’erano stati pure figli che avevano ucciso i loro padri… storia triste questa dell’armata a cavallo, che Isaac Babel’, lo scrittore russo di origine ebrea, giornalista al seguito dell’armata, e che nel Gennaio del ’40 sarà fucilato per ordine di Berija, racconterà in tutti i suoi macabri dettagli. In quegli anni i cosacchi non sembravano più quelli di un tempo, e il maresciallo Budienny comandava con modesti risultati le truppe motorizzate e corazzate che avrebbero dovuto fermare l’invasione nazista.
Ora i cosacchi odiavano Stalin, mal sopportavano il bolscevismo, aspiravano all’indipendenza, allora molti disertavano, e mille di loro accettarono la proposta del maggiore Campello di combattere per gli italiani.

L’inverno del ’41 fu segnato da un freddo da morire, minima -30, massima -45. In quei mesi, trascorsi in un piccolo paese dal nome contorto e complicato “Awdejewka”, i cavalieri ebbero il tempo di dare un’affrescata di cultura alla loro vita di reggimento. Qualche libro, per i più impegnati anche Tolstoj e Dostojewski, un po’ di cinema con Ave Ninchi Cesco Baseggio e la Maltagliati protagonisti, e nel teatro di Stalino qualche rivista, i tristi cori della steppa e i classici balletti della tradizione cosacca. Ma gli uomini del Reggimento, cavalieri essendo, e quindi gente di sport, sentivano incombente il richiamo dell’agone sportivo: il salto ad ostacoli.
Arrivò infine la primavera, e con la bella stagione Bettoni Abba e gli altri cavalieri si diedero da fare. Spianarono un terreno nel centro del paese, vi misero le gabbie, il muro, la croce di Sant’Andrea e la riviera, approntarono una tribunetta per il pubblico, chiamarono uno di loro a fungere da speaker e organizzarono concorsi modello Piazza di Siena. Il 9 Maggio, per la festa dell’Esercito, mentre i vertici militari attendevano l’offensiva dei russi che per gli attacchi più violenti sceglievano le date delle nostre festività, loro imperturbabili inauguravano la stagione agonistica. Memore dei brillanti trascorsi olimpici berlinesi, il capitano Silvano Abba montando Agnova mise dietro tutti gli altri pur bravi ufficiali, primo tra i battuti il sottotenente milanese Massimo Gotta figlio di Salvator che scrisse “il piccolo alpino”, che montava il grigio Palù, a cui lo scrittore dedicherà un commovente articolo dopo la morte del destriero nella carica.
Un mese dopo, il 7 Giugno per la Festa dello Statuto, Abba sempre su Agnova concesse la replica.
E quando arrivarono a far visita al reggimento le dame della Croce Rossa, con in prima fila la contessa Bettoni moglie del comandante, ed insieme a loro Edda Ciano Mussolini, un’altra giornata di vita mondana e sportiva fu messa in programma per rispetto alle illustri ospiti: “un’elegantissima colazione con ottima cucina in mezzo alla steppa, non sembra vero” (5) scriverà la contessa Bettoni nei suoi diari, predisposta dal cuoco Cazzoli che la arricchì dei suoi celebri vol-au-vent, e alle cinque della sera grande concorso ippico, più di trenta ufficiali in gara, tribuna ricolma di gente e di generali e più di mille persone ai margini del campo; al termine delle premiazioni un ricco thè alla mensa del Comando. Era il 21 Giugno e nove giorni più tardi arrivò per Savoia l’ordine di lasciare il paese e spostarsi a Korssuni. Avvicinarsi al nemico.

Quando il reparto lasciò Awdejewka poco mancò che venisse decretato il lutto cittadino. Passava il reggimento e i contadini si toglievano il cappello, era un dosvidania per quegli onesti cavalieri con cui avevano condiviso il freddo la fame e i passatempi dello sport, molte donne si disperavano perché con la primavera era sbocciato pure l’amore, verso un soldato o un ufficiale.
Il seguito fu un attraversamento di paeselli con poche isbe vuote e cadenti, di bacini carboniferi e di ponti su fiumi che preannunciavano il Don, di missioni esplorative per l’individuazione del nemico.
Frattanto, lo scenario bellico si trasformava in maniera repentina e significativa. I russi attraversavano il Don con numerose divisioni, e nel corso dell’offensiva travolsero parte delle nostre truppe, in particolare il 54° reggimento della divisione di fanteria Sforzesca.
E la notte del 24 agosto si portarono a ridosso del Savoia preparando un attacco in forze per il mattino seguente.
Quella notte il capitano Abba contrariamente al solito era malinconico, e sentiva il bisogno di confidarsi, lo fece con Toja e Compagnoni i fedelissimi, e parlò loro del suo rapporto con Annamaria, sua moglie, una dottoressa tedesca con la quale -disse lui- non riusciva proprio ad andare d’accordo.
Quella stessa notte, mentre gli altri un po’ dormivano e un po’ si tormentavano, il sottotenente Gianoli prese appunti per il suo futuro racconto: “… date le biade e l’acqua, divorato il rancio, cavalli e uomini si predisposero con piccola pazienza al riposo. I volti si chiudevano come pietre al sonno ingannatore che veniva a cancellare dal cuore distanze, tempo, paure, sospetti, le arroventate fatiche del giorno e tutto in breve tacque sotto la nera passione della notte, sotto lo sguardo impassibile del firmamento. Solo i cavalli, liocorni dalle grandi pupille, rifiutavano il sonno per guardarsi attorno, lasciare ogni tanto la biada e alzare la testa, le orecchie dritte, sospettose e forse presaghe, puntate all’orizzonte. Sapevano, intuivano? Chissà.
L’ora bugiarda e stanca aveva spento anche i gracili rumori della steppa, la furtiva donnola, la lamentosa civetta, il grillo, tutti a dormire ormai, mentre dagli occhi esuli delle stelle pareva scendere la rugiada. Passava il tempo pieno di sospetto e di abbandono e dall’onda riposata della notte la mattina non sorgeva ancora. (6)
………. Quando infine a oriente una pallida luce strisciò l’orizzonte d’azzurro e la steppa sonnolenta sembrò predisporsi al rito dell’aurora, quando dal cielo imbiancato sparì il fragile dominio delle stelle, si udì l’incredibile, intemerata voce dell’allodola, già pronta all’erto volo nello spazio rinnovato. E’ questa l’ora più dolce per dormire, ma già molti soldati arrotolavano i pastrani, spolveravano le coperte, insellavano, davano una piccola razione di biada ai loro cavalli. Alle 4 l’aiutante maggiore ordinò ad una pattuglia di procedere verso nord-est, verso quota 213. Sette cavalieri balzarono in sella e subito si diressero al trotto verso una sterminata folla di girasoli, menzognere facce di fiori ancora reclinate. Prima di entrare in quel mare giallo si fermarono un poco, si consultarono i sette cavalieri e infine vi si inoltrarono e solo le teste ne sporgevano oscillanti al trotto. A un tratto si arrestarono di nuovo: avevano scorto qualcosa muoversi tra le piante. Istintivamente uno fece fuoco. Rispose una raffica. Una testa sparì. Il fuoco si estese, dilagò per tutto un fronte vastissimo come una polveriera incendiata da cento micce.
I girasoli caddero falciati mostrando soldati, armi, mortai sino allora celati dal loro effimero velo. La pattuglia tornò al galoppo, mentre un coro rabbioso di mitragliatrici si rovesciava sul reggimento rivelando la linea d’un vastissimo schieramento nemico. Eravamo semicircondati, un fronte incredibilmente vasto correva per alcuni chilometri davanti e sui fianchi di “Savoia”. E tuttavia nessuno ne fu turbato come se da quella fosca notte non potessimo attenderci altro, come se quell’ora fosse stata da sempre annunciata. (7)
…………. Allora lo si vide, il nostro regale Stendardo, liberato dalla custodia, spiegarsi come l’ala di un’aquila e abbandonando le frange dorate alla brezza del mattino palpitare trepidante per l’imminente volo. Pareva un sovrano appena ridestato da un lungo sonno magico e profondo, un sonno di secoli, che si guardasse attorno stupito dapprima e infine lieto e sereno di cotanto risveglio. Sotto quello sguardo antico la carica nacque” (8).

Vita breve e gloriosa, quella di Abba. Morte brevissima gloriosa ma pure beffarda, come quella di Achille trafitto da Paride al tallone dimenticato da Teti fuori dello Stige … E totalmente diversa da quella del suo comandante di reggimento Bettoni, che sopravvisse non si sa bene come alla campagna di Russia, e tornato a gareggiare tra gli ostacoli ed i cavalli da civile, chiuderà la sua vita terrena a Piazza di Siena nel 1951, durante il tradizionale Concorso Ippico Internazionale. Funerali più solenni di un funerale di Stato: tutti i cavalieri di tutte le nazioni partecipanti al centro del prato, le bandiere a mezz’asta, gli ultimi suoi cavalli Litargirio e Serena bardati a lutto. Orazione funebre pronunciata da Ranieri di Campello. La solenne marcia del principe Eugenio a chiudere l’estremo saluto. Cosa di meglio sperare per le proprie esequie?
Abba comandava il 4° squadrone quando già la carica era avviata, i russi pur disorientati resistevano e replicavano, allora il comandante, nel tentativo di distrarre il fuoco dei mortai nemici dai cavalieri del 2° e 3° squadrone, pregò Abba di avanzare con i suoi, ma subito e appiedati. Non tradì alcun disappunto, Abba, ma in cuor suo era perplesso e malinconico ‘… la morte di un cavaliere deve avvenire a cavallo … altrimenti che cavaliere è? ’ Abba obbedì, consegnò il suo cavallo all’attendente, e partì deciso e sereno alla testa dei suoi, il passo era agile, era quello di un atleta, anzi di un pentathleta, passi e balzi alternati a brevi momenti di attesa e concentrazione, lui si destreggiava abile tra i girasoli… “… aveva raggiunto la linea nemica, l’aveva raggiunta a balzi leggeri e già s’avvicinava alla seconda, quando un proiettile invidioso gli trapassò insieme l’obiettivo e il cuore. Morì all’istante così che la morte non ebbe neppure il tempo di spegnergli il radioso sorriso d’atleta” (9).
(Vincenzo Pennone - per La. CRO.S.S. - l'Associazione Cronisti e Storici dello Sport)


Note:

1 – Luigi Gianoli, Savoye Bonnes Nouvelles, Edizioni Equestri, Milano, 1988
2 – Ibidem, pag.120
3 – Ibidem, pag.120
4 – Lucio Lami, Isbuscenskij l’ultima carica, Mursia, Milano, 1970, pag. 28
5 – Luciano Mela, Pietro Crespi, Dosvidania, Vita e pensiero, Milano, 1995, pag. 358
6 – Luigi Gianoli, Savoye Bonnes Nouvelles, Edizioni Equestri, Milano, 1988, pag. 140
7 – Ibidem, pag.140/141
8 – Ibidem, pag.142
9 – Ibidem, pag. 145/146

Bibliografia:

Luigi Gianoli, “Savoye Bonnes Nouvelles – L’ultima epopea della cavalleria italiana”, Edizioni Equestri, Milano, 1988
Lucio Lami, “Isbuscenskij l’ultima carica”, Mursia, Milano, 1970
Luciano Mela - Pietro Crespi, “Dosvidania”, Vita e Pensiero, Milano, 1995
Giorgio Vitali, “Trotto, Galoppo…Caricat! – Storia del Raggruppamento truppe a cavallo. Russia 1942-1943”, Mursia, Milano, 1985
Giuseppe Veneziani Santonio, “Storia della Equitazione Italiana, Volume primo”, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1996
Giuseppe Veneziani Santonio, “Storia della Equitazione Italiana, Volume secondo”, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1997
Elio Trifari, “Enciclopedia delle Olimpiadi, vol.I”, Rcs Quotidiani Spa, Milano, 2008
Lo sport fascista 1936 XIV, anno IX n.9